Perseveranti

«Erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano», scrive l’evangelista Giovanni, «la sera di quel giorno» (Gv 20,19) nel quale il Crocifisso era stato risuscitato «dalla potenza di Dio» (1Pt 1,5). Mentre timore e sconforto serpeggiavano tra i discepoli, «venne Gesù», senza sfondare alcuna porta, violando soltanto il carcere della tristezza con un riconciliante saluto: «Pace a voi!» (Gv 20,19). Non è facile sintonizzarsi immediatamente con i sentimenti che un altro prova per noi, soprattutto quando sono belli e inattesi. Per questo il Signore decide di aggiungere alla parola un gesto capace di infondere speranza e rassicurazione al gruppo dei discepoli. Così, senza alcuno spirito di rivalsa, mostra loro «le mani e il fianco» (20,20), il tatuaggio del male ricevuto ma soprattutto il segno eloquente del perdono offerto. Una felicità improvvisa, capace di scaldare ed emozionare, si accende improvvisamente nel cuore dei suoi amici: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (20,20).

Non tutti, però, sono pronti a entrare nel clima di questa gioia e nel calore di questa ritrovata comunione con il Signore risorto: «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù» (20,24). La crisi di questo apostolo sembra avere radici profonde in lui, al punto da renderlo incredulo persino davanti all’entusiasmo dei suoi compagni: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (20,25). Eppure, è proprio Tommaso a saper compiere, otto giorni dopo, la più bella professione di fede, lasciandosi alle spalle ogni residuo di delusione e tristezza: «Mio Signore e mio Dio!» (20,28). Ultimo a incontrare il Risorto, Tommaso è il primo discepolo a comprendere che la «speranza viva» (1Pt 1,3) della Pasqua non si incontra in qualunque modo e in ogni luogo. Il Signore Gesù non desidera semplicemente essere ritenuto credibile, ma diventare affidabile ai nostri occhi, affinché scopriamo quanta «vita» possiamo ricevere «nel suo nome» (Gv 20,31). Per questo ha disposto tempi e circostanze in cui questa esperienza di incontro con la sua grazia possa diventare fruibile per ogni uomo. A questa possibilità ci educa continuamente la liturgia della Chiesa con la sua sorprendente sobrietà e con la sua fedele puntualità.

«Otto giorni dopo» Gesù è tornato in mezzo ai suoi discepoli radunati insieme per insegnare loro che, ormai, la sua grazia è un dono accessibile e attingibile per ogni comunità che si raduna nel suo nome. Non ovunque, non sempre ci è donato di incontrare il Signore risorto. Certo, egli ci cerca, ci attende, costruisce percorsi che conducono a lui; ci insegue in qualsiasi latitudine la nostra vita possa trovarsi e, soprattutto, smarrirsi. Ma, al contempo, attende che noi condividiamo con i fratelli la memoria e il desiderio della sua presenza, che diventiamo Chiesa, imparando a celebrare riti e liturgie come occasioni “uniche” di accoglienza del suo Spirito e non come stanche ripetizioni di gesti e parole a cui non corrisponde nessuna intenzione e nessuno spirito.

Così, del resto, si alimenta ogni relazione di amore. Non solo con la magia e l’incanto della spontaneità, ma anche con l’incedere ordinato e fedele che sgorga da un cuore felice di aver scelto l’altro. Un cuore che impara a battere senza farsi rallentare dai rimpianti e dal senso di colpa. La Pasqua del Signore ci insegna che l’amore non si improvvisa, ma si costruisce, lentamente, attraverso gesti e parole ripetuti nel tempo, con cui si impara a morire a se stessi fino a diventare «perseveranti» (At 2,46) nell’attenzione all’altro e nella fedeltà al proprio cuore. Così ha fatto il Signore con noi: non ha improvvisato la rivelazione della sua dedizione all’uomo, ma l’ha costruita pazientemente, approfittando delle occasioni offerte dal tempo e dalla storia.

Ancora oggi egli rimane fedele alla sua scelta di dedizione, fatta per tutti e per sempre. Attende di incontrarci l’ottavo giorno di ogni settimana, cioè in ogni tempo. Consegnandoci la libertà di fare altrettanto, per allargare i confini della Chiesa e gli spazi di risurrezione dove uomini e donne possono riconoscersi fratelli e sorelle: «Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (2,47).