Entrare nella gloria

Dopo la sua Pasqua, ormai affrancato «dai dolori della morte» (At 2,24), il signore Risorto cerca di stabilire un contatto con la nostra umanità, mettendo i suoi passi accanto ai nostri, adeguando la velocità della sua gioia alla lentezza dei nostri volti tristi e rassegnati. La pagina con cui l’evangelista Luca racconta l’eterno incontro tra il nostro scoraggiamento e la forza trasformante della Pasqua inizia con Gesù che si avvicina a due discepoli in cammino e «camminava con loro» (Lc 24,15). I due viandanti non si accorgono di nulla, «i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (24,16), forse perché i loro cuori erano ancora molto «sconvolti» (24,22) dalla paura e dal dolore. Senza giudizi né rimproveri, il Signore sembra quasi cercare accoglienza dentro la trama dei nostri sentieri interrotti. Non comanda, non esige; si mette in cammino con noi appassionandosi alle domande che portiamo nel cuore: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?» (24,17). Uno dei due, Clèopa, trova il coraggio di manifestare la rabbia a la delusione: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (24,18).

Quante volte anche noi, chiusi nel nostro dolore, ci ostiniamo a leggere la storia restando abbarbicati al nostro modo di sentire, condizionati da quello che abbiamo sofferto, senza riuscire a ricordare anche quello che, proprio nei momenti più drammatici, tutti riusciamo a offrire. Preferiamo restare chiusi nel nostro sconforto, ignorando quanto il mistero del dolore sia qualcosa da tutti sperimentato e attraversato. Soprattutto da Dio, che assume la realtà sempre più profondamente di quanto noi siamo disposti a fare. Sono passate appena quarantott’ore dalla sua terribile passione e il Signore Gesù sembra non avere alcuna memoria di tutta la violenza ricevuta e non restituita: «Che cosa?» (24,19). Davvero Dio non si ricorda «del male ricevuto», non ne «tiene conto» (1Cor 13,5), perché è amore e perdono.

Davanti a questo modo di porsi, i due discepoli si sentono liberi di parlare, formulando un resoconto dei fatti perfetto ma privo di speranza: «Noi speravamo…» (Lc 24,21). Sono così anche tanti nostri discorsi, tante parole che diciamo per cercare di interpretare la realtà: un racconto senza vangelo, una notizia cattiva e falsa, molto simile a quelle con cui amiamo riempire le pagine dei giornali e i rotocalchi televisivi. Gesù ascolta, con pazienza e amore, perché sa bene che il dolore non se ne va fino a quando qualcuno non lo prende su di sé. Poi però impedisce ai discepoli di rimanervi attaccati, con un deciso rimprovero: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (24,26).

È difficile strappare il dolore e guarire le ferite interiori. A volte sembra un compito impossibile, come tentare di sradicare un albero con due mani. Scelte sbagliate, male ricevuto, incidenti accaduti, occasioni mancate: in infiniti modi la delusione entra nel nostro cuore e lo svuota di speranza. Gesù però ha una speciale autorità in questo ambito, perché davanti all’odio e alla violenza non ha scelto la fuga ma la via del perdono. Dopo la morte e la risurrezione, la sua voce è ormai libera di illustrare la parola della croce, annunciando che amare fino a perdersi non è il limite ultimo in cui la vita si incaglia, ma la definitiva occasione di incontrare una grazia che «vale più della vita» (Sal 62,4).

Il Signore prende in mano le Scritture e spiega che sin da principio esse si riferivano «a lui» (Lc 24,27), che «bisognava» (24,26) che le cose andassero così: ciò era necessario per noi e per lui. Era necessario perché il male esiste e fa male, soprattutto a chi lo riceve. Era necessario perché anche il bene c’è, ed è più forte del male, lo sconfigge. Bisognava, dunque, che sapessimo fino a che punto Dio è disposto giocarsi con noi, fino a offrire per noi e per la nostra salvezza non «cose effimere, come argento e oro» (1Pt 1,18), ma il «sangue prezioso di Cristo» (1,19), il suo unico e amato Figlio. Anche noi, come i due discepoli di Èmmaus, possiamo smettere di fuggire e imparare a «conoscere le vie della vita» (At 2,28). Proprio là dove sembrava non esserci più né gioia né futuro ci possiamo finalmente essere noi che, attraverso la comunione col Signore risorto, diventiamo pane di amicizia e vino di fraternità per ogni fratello che incontriamo nel cammino della vita.